Il manifesto dell' industria della bicicletta italiana
PREMESSA-
SafetyBicycle ha preparato questo manifesto nove anni fa, all'indomani della riunione di Bologna nella quale vennero poste le basi per il rinnovo nel 2005 di regolamenti antidumping contro le bici cinesi. Da allora l'industria europea é riuscita per altre due volte a ottenere da Bruxelles regole per contenere l'importazione senza regole. Lo spirito che fece coalizzare allora l'industria sembra oggi scomparso. Ma gli spunti fondamentali sono rimasti gli stessi.
Noi della bicicletta italiana
siamo una delle più antiche industrie del continente.
In centocinquant'anni abbiamo dato libertà di movimento individuale ad intere generazioni di Italiani, in tutto l’arco della loro vita.
Le abbiamo rese più forti, indipendenti e felici, oggi le rendiamo anche grandi amiche dell' ambiente e della salute comune. In tutto questo tempo, abbiamo fornito un servizio affidabile che nessun altro mezzo di trasporto é mai riuscito ad assicurare in maniera così duratura.
Al mondo dello sport abbiamo incondizionatamente consegnato il nostro intero patrimonio di innovazioni. Ciò ha reso la bici un prodotto tecnologicamente molto avanzato.
Con questa scelta non abbiamo mai superato, forse con eccessiva modestia, i confini della nostra missione che é e rimane quella di progettare e realizzare con maestria uno strumento al servizio delle prestazioni umane . Il vero compenso é rappresentato dal fatto che oggi la bicicletta italiana racing partecipa a pieno titolo a quel magico immaginario collettivo mondiale che si chiama ‘Made in Italy’ ed il suo indiscusso successo di mercato contribuisce alla riduzione del deficit europeo provocato dalla inarrestabile crescita delle importazioni nel nostro continente.
Malgrado tutto ciò, come industria fatta di piccole e medie aziende e piccoli artigiani, non abbiamo mai avuto la pretesa di contare di più: ci siamo sempre accontentati di essere nel cuore di milioni di utilizzatori e, pur di rimanervi, abbiamo accettato di combattere tutte le sfide che il libero mercato ci imponeva, compresa quella del prezzo. Quando le industrie legate della mobilità pretendevano di favorire il loro sviluppo con le grandi protezioni dello Stato, con il supporto di grandi infrastrutture, con forti investimenti e pesantissime ipoteche nel campo delle risorse energetiche, praticando strategie che pericolosamente vincolavano il destino di grandi masse di lavoratori, noi abbiamo semplicemente chiesto a tutti di fare solo una cosa : pedalare.
Eravamo certi che milioni di Europei, e soprattutto gli Italiani, lo avrebbero fatto con biciclette fabbricate in Italia.
Nemmeno la prima fase della globalizzazione, segnata da una benefica riduzione dei costi di trasporto e dei dazi mondiali, ci ha colto impreparati: molti di noi sono stati pronti a trasferire le produzioni meno difficili da dislocare. Cosi’ facendo abbiamo ridotto il margine di valore aggiunto italiano che comunque é stato trasferito a favore dello sviluppo economico sociale dei nostri partner esteri.
Ma la mondializzazione ha esasperato la ricerca frenetica di forniture a basso costo di lavoro umano. Il mercato europeo e’ stato costretto a ricorrere ai traders (commercianti internazionali) più disinvolti, che nelle loro pratiche spesso fingono di non sapere che ciò che vendono e’ stato prodotto senza rispettare le regole commerciali, fiscali, sociali, ecologiche ed etiche che vigono in Europa. Alla spregiudicatezza di questi commerci, che favoriscono spesso la più spudorata ed illegale falsificazione di marchi e brevetti europei, si é anche aggiunto il comportamento sleale di molti paesi che pur di compromettere le industrie concorrenti, hanno drogato e drogano con sussidi e sconti fiscali il dumping delle loro industrie esportatrici.
Ma il futuro dei grandi accordi che regolano il commercio dell’Unione Europea con il resto del mondo sembra presentare per la bici italiana un futuro ancora peggiore. Impegnati a sopravvivere, non abbiamo avuto modo di accorgerci di essere ormai caduti nella rete di forti gruppi di pressione internazionale. Queste lobbies che raccolgono le grandi cooperative d’acquisto, le organizzazioni di commercianti, molti mass media e perfino alcuni influenti opinion makers politici, premono con tutti i mezzi affinché i singoli governi europei, spesso ambigui nel difendere gli interessi nazionali, si esprimano a favore di principi commerciali apparentemente di grande respiro, ma che finiscono per tener conto solo di una parte degli interessi del ‘Sistema Europa’.
E’ il caso del progressivo trasferimento dell’ impianto manifatturiero europeo. Questa scelta di rinunciare alla ‘manufacturing base’ e delegarla ad altri é destinata a favorire solo quei paesi europei che, non avendo mai curato un’ industria manifatturiera o avendo deciso da tempo di eliminarla, si mostrano interessati a modesti margini commerciali che gestiscono con l’impiego di pochi operatori e pochissima mano d’opera. In realtà si aspettano di beneficiare anche di forti profitti finanziari che essi, con i loro investimenti nel FarEast, si preparano a raccogliere mano a mano che l’Europa dei consumatori si sostituisce all’ Europa dei produttori. Questi paesi coalizzati sono in grado a Bruxelles di sacrificare il tessuto industriale di paesi come il nostro la cui fortuna economica é dipesa proprio alla maestria delle fabbricazioni .
E’ per questo che l’industria italiana della bicicletta, formata da più’ di duecento imprenditori abituati da sempre a reinvestire i loro profitti nelle loro imprese e nel loro territorio, si prepara a lottare per la sua sopravvivenza in tutte le sedi in cui si voglia decidere di interrompere la sua formidabile e singolare longevità. Pur coscienti di non poter fermare l’ enorme fiume vasto ed inarrestabile delle importazioni, stiamo oggi lottando assieme ad altri paesi dell'Unione affinché alla scadenza del 2005 il nostro Governo dichiari chiaramente di essere favorevole al rinnovo del dazio antidumping sulle biciclette di origine cinese.
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